Interpretatio Prudentium, Ano I, Número 1, 2016
Il secolo del theodosianus.
Riflessioni su materiali e metodo di studio*
Elio Dovere
Professore, Diritto Romano
Dipartimento di Giurisprudenza, Università degli Studi di Napoli Parthenope
1.
Queste pagine vogliono essere un momento di riflessione propositiva, un modo ragionato di addensare precisi spunti di ricerca intorno a un tema ben individuato.
Si tratta di uno sforzo vòlto a oggettivare, benché forse in maniera alquanto clastica ma con dati non incerti e comunque riscontrabili, più di un interrogativo all’origine di una personale esperienza ultratrentennale di indagine centrata su un esteso tratto temporale del Tardoantico: il V secolo. Un periodo di lunga durata, questo, che nell'indagine storico-giuridica generale rimane tuttora ancora alquanto negletto nonostante l'allargarsi “a macchia d’olio” delle iniziative scientifiche che, non sempre con eguale spessore – dunque con risultati spesso infruttuosamente ondivaghi [1] –, proprio al mondo tardoromano, e oggi in specie a quello d’Occidente, volgono interessi ripetuti e larghi mezzi [2].
In verità, dovrebbe essere davvero intenso l'imbarazzo di chi, notando la quasi febbrile attività di indagine che negli ultimi decenni è stata profusa sui più disparati problemi relativi alla realtà mediterranea dei due secoli successivi al principato dioclezianeo [3], volesse fermare la propria attenzione, appunto, sullo spazio ancora oggi scientificamente riservato al V secolo e al suo ius in una prospettiva per così dire “integrale”. A dispetto di non pochi contributi parziali [4] – solo alcuni, tuttavia, apprezzabili per un impiego utilmente ricostruttivo della riflessione sugli eventi dei cent’anni pregiustinianei [5] –, la rappresentazione del diritto (e non solo) di tale epoca rimane assolutamente deficitaria [6]. Il ius storicamente rintracciabile dell’arco di anni a partire dal principato di Arcadio e Onorio e fino a quello di Anastasio I e al regnum italico di Teoderico continua ad attendere, non dico già un tentativo di sintesi ben articolata e precisa (comunque prima o poi finalmente auspicabile [7]), ma almeno più d'una vera linea di studio diretta a percorrere l’intero secolo: tanti, diversi e ampi tracciati, magari, tutti indirizzati a lumeggiare le varie facce del diritto teodosiano e di quello a esso successivo, come sappiamo in gran parte prodotto in Oriente, nell’intento di non consentire, ovviamente nei limiti della disponibilità e dell’attendibilità delle fonti, la permanenza di ombre troppo scure sull’ordinamento immediatamente precedente al grande riordino giustinianeo [8].
Constatare il protrarsi esteso di ben poca luce su segmenti importanti del sistema giuridico dei Romani e, non meno rilevante, sulla connessa pratica di governo, anche e soprattutto per quella parte dell’impero da sempre grecoloquente e, tutto sommato, sostanzialmente alquanto “tranquilla” nel V secolo perché davvero poco pressata dal problema barbarico [9], dovrebbe suscitare una vera e propria inquietudine nello storiografo-giurista. E questo specialmente in colui che, com’è giusto che sia, si dedica alla ricerca seria non solo delle differenze col presente di ciò che è stato ma, cercando di individuare gli elementi di continuità col passato, intende porsi pure all'esplorazione delle proprie radici: quelle possibili relazioni che tengono fortemente avvinto il nostro “oggi giuridico” con le esperienze già completamente conchiuse e culturalmente acquisite.
E dunque, dall’angolo visuale del ricercatore che tiene storicamente d’occhio sia certe masse di materiale giuridico, e pensa al loro esatto contribuire alla formazione dell'ordinamento, sia i sottostanti fenomeni economici e socio-culturali, è senz’altro vero che gran parte della realtà pregiustinianea – o, a seconda della prospettiva, di quella teodosiana e post-teodosiana – rimane oggi fortemente disattesa. Di essa appaiono sottaciuti aspetti decisamente non secondari, spesso percepibili solo grazie a fonti “atecniche”, almeno di solito concettualmente escluse a priori: veri e propri passaggi culturali rimangono di fatto ignorati, benché di certo essi siano strutturalmente essenziali per la definizione del sistema giuridico mediterraneo dell’epoca. Essi dovrebbero essere adeguatamente esplorati dal giusromanista che, fra gli studiosi dell’antichità, è il solo a possedere strumenti idonei a collocare nel preciso contesto storico-ordinamentale ogni materiale documentario ancora oggi fruibile, a “sistemarlo” cioè, sull’onda degli interrogativi più appropriati, adeguatamente traendolo fuori dalla sua storia particolare.
Per restare nell’arco temporale prescelto e non offrire che qualche esemplificazione, ma più che significativa come ben sanno molti specialisti del Tardoantico (e peraltro già ampiamente verificata da chi scrive nelle indagini svolte negli ultimi sei lustri), si pensi anzitutto, e con qualche attenzione, agli Atti dei primi concìli ecumenici e alle referenze giuridiche in essi reperibili.
L’estrema utilità di queste collezioni appare tranquillamente sperimentabile da parte dell'esegeta storico e giurista grazie all'agevole disponibilità, ormai da tempo, non più di invecchiati e per più versi obsoleti florilegi [10] – cui, tuttavia, ancora esclusivamente ci si rivolge finanche in parecchi – ma dell’affidabile edizione critica degli Acta Conciliorum Oecumenicorum meritoriamente avviata giusto cent’anni fa da Eduard Schwartz [11]. Andando ben oltre un generico collegamento tra regolamentazione canonica e taluni contenuti del tardo diritto romano – rapporto da più parti in qualche caso evidenziato, ma superficialmente indagato e raramente approfondito –, il serbatoio informativo rappresentato da tali documenti, mano a mano che la ricerca tende a emanciparsi da alcune poco condivisibili preclusioni metodologiche, si rivela vieppiù giovevole. E questo vuoi ponendo a confronto le decisioni dei Padri conciliari con i progetti di governo delle cancellerie imperiali (nella direzione che episodicamente è stata indicata da certa ottima giusromanistica [12]), vuoi, e secondo il mio parere soprattutto, per la possibilità di rintracciare un vero e proprio giacimento legislativo, in gran parte funzionalmente ancora inesplorato, proprio all’interno degli Acta Conciliorum [13].
Se è senz’altro vero che l’esame dei testi conciliari, in specie l’indagine su quella parte contenente i verbali di quanto dibattuto durante le sessioni dei sinodi spesso con l’ingombrante presenza del principe e dei suoi uomini, non può che farci apprezzare la gratificante verifica di certe relazioni per qualche verso osmotiche tra i disegni normativi civili e le conclusioni disciplinari canoniche – è il caso, a metà del V secolo, assai bene testimoniato dalle carte del concilio calcedonese [14] –, è altrettanto vero come la lettura di tutti gli Acta, ovvero anche dei numerosi testi preliminari come pure delle relative non modeste appendici, consenta di cogliere, in contemporanea, preziose informazioni tecnicamente giusromanistiche. I verbali dei sinodi, sia nell’originale stesura in lingua greca sia nella successiva e parziale latina versio, sono referenti di numerosi dettati legislativi trascritti in quella che presumiamo essere stata la loro redazione originale: gli ecclesiastici raccoglitori protobizantini degli Acta, per avere in uno con i verba dei Padri conciliari molte delle contemporanee cogenti disposizioni imperiali di marca religiosa, avrebbero infatti messo assieme non poche constitutiones – o, comunque, altri documenti più o meno ufficiali come, per esempio, ordini di servizio, petizioni, relazioni, epistulae, discorsi [15] –, così fortunosamente pervenuteci e, in più di un caso, altrimenti sconosciute [16].
Queste leggi, alcune entrate non molti decenni apresso a far parte del Codex repetitae praelectionis con una veste estremamente ridotta (in qualche caso, per così dire, pressoché massimata [17]), conservano là le loro ampie motivazioni di fondo; esse trasmettono, oltre il dispositivo a noi giunto aliunde, sia la specifica occasione normativa sia, di frequente, le articolate ragioni politiche alla base delle scelte imperatorie. In qualche occorrenza, grazie alla provvida accuratezza dei compilatori ecclesiastici appunto motivata dall’opportunità di avere assieme ai canones pure certi “omogenei” interventi civili ufficiali, nelle raccolte conciliari è possibile rinvenire persino alcune leges a noi ignote per altre vie [18]. Tutte queste fonti, naturalmente, si rivelano più che utili per ricostruire con qualche soddisfazione i percorsi seguiti nel tempo dalle cancellerie, ovvero per riannodare quelle trame della politica di governo che, viceversa, talora appaiono smagliate, finanche impalpabili, di sicuro lontane dall’apparire sezioni di un tessuto organico grazie solo alla lettura degli stringati, benché numerosi, provvedimenti raccolti e organizzati nel Codice del VI secolo.
Credo che si possa dire altrettanto, così come per gli Acta degli antichi concìli ecumenici, anche per la storiografia ecclesiastica e per i dati da essa traibili [19]. A dispetto dell’impegno da qualcuno profuso, e non solo di recente, nel mostrare l’estrema utilità per la ricerca giusromanistica delle risultanze di questo genere letterario specificamente tardoantico, esse continuano a rimanere generalmente misconosciute nell’ambito degli studi storico-giuridici salvo che essere impiegate, more solito, come occasionale ma solo residuale deposito cui attingere notizie curiose, se non anche soltanto sapide spigolature [20].
I libri degli storici della chiesa vissuti nei secoli dal IV al VI, per più di una ragione riboccanti di dati provenienti dall'esperienza giuridica, se letti con cura e sistematicità possono trasmettere al ricercatore qualcosa di diverso rispetto ai semplici, sebbene importanti, testi ufficiali presenti negli Atti dei primi sinodi ecumenici. Se non è affatto difficile verificare la quantità delle informazioni dal taglio giuridico reperibili nelle pagine delle Historiae ecclesiasticae (alcune notizie, peraltro, confrontabili con quelle a noi diversamente giunte), è del pari agevole constatare pure, e in via prodromica, la singolare qualità di molte tra queste opere, e dunque il pregio di ciò che esse trasmettono in una generale prospettiva di ricostruzione storico-giuridica.
Quasi sempre si tratta di Storie, oggi per fortuna fruibili in edizioni critiche davvero impeccabili [21] – anche se in tanti, purtroppo, continuano a insistere esclusivamente sulla vecchia collectio di Jacques-Paul Migne –, connotate da un’estrema serietà scientifica. E l’antica correttezza metodologica non solo si percepisce da parte dell’esegeta dotato di una particolare paziente acribia, talora essa risulta persino esplicitata con viva voce dai singoli autori ed elevata a preciso e riscontrabile codice narrativo [22]. Tale consapevole impostazione avrebbe riguardato non soltanto l’opzione preliminare concernente il pubblico prescelto come destinatario delle proprie pagine, ma anche un più ampio ventaglio di scelte, a iniziare dallo stesso filone letterario in cui inserire la narratio e fino alla cosciente selezione dello stile cui uniformare l'intero lavoro; tutto ciò, d’altronde, con indirizzo “modernamente” assai apprezzabile da parte di noi interpreti, scegliendo cioè di effettuare una rigida cernita del materiale documentario da mettere a contributo, incluso quello relativo ai temi giuridici preziosissimo per i giusromanisti [23].
Peraltro, questi autori tardi non ci appaiono solo come semplici relatori degli affari ecclesiastici e civili degli anni di Costantino, dei suoi successori e, essenziali per il nostro contesto, di molti dei prìncipi del V secolo. Essi, in maniera inequivoca, in qualche caso portano con sé pure la propria esperienza di coevi operatori di diritto – storiografi, infatti, ma in contemporanea talora pure avvocati –, trasfondendola tutta nell’impegno letterario: trascelgono con accuratezza per la narrazione, per esempio, taluni fatti dall’oggettivo spessore giuridico e offrono, senza risparmio, osservazioni e considerazioni giuridicamente rilevanti [24]. Ermia Sozomeno, Socrate di Costantinopoli, Zaccaria di Mitilene, Evagrio di Epifania, tutti referenti per il secolo del Teodosiano (per quanto operanti in periodi tra loro anche assai distanti [25]) e tutti scholastikoí, in quanto tali non potevano che essere vicini alla realtà culturale di coloro che col diritto vigente dovevano in qualche modo regolare quotidianamente i conti. Basti soltanto pensare a quanto i libri di Sozomeno riescono a rivelarci dell'impegno occorso allo scrittore per vagliare la documentazione a sua disposizione [26]: un’attività idonea a mettere a frutto sia le diverse capacità “professionali” dell'autore sia, e non per ultimo, il suo “pragmatismo di giurista nella ricostruzione storica” [27].
Come sfondo di tutto ciò non può non esservi la riflessione sui non secondari spunti contenuti nelle Historiae ecclesiasticae che oggi rimandano, quasi naturalmente, alle relazioni intessute fra i rispettivi autori e i membri della classe di cultura allora egemone. Sono gli stessi storiografi, di frequente, a rivelare in forme più o meno palesi quanto essi fossero intimamente partecipi delle esperienze del contemporaneo apparato burocratico o della parallela gerarchia della ecclesia [28]; una partecipazione sperimentata coi livelli più alti di entrambe le realtà istituzionali, e proprio per questo foriera di informazioni di prima mano e, dal nostro punto di vista, estremamente qualificate sul piano della restituzione dell'ampio background culturale dell’epoca e, in tale contesto, di tratti non irrilevanti delle ragioni delle scelte di governo e del modificarsi del “sistema” giuridico tardoantico [29].
E perciò, con esplicito riferimento ai decenni del V secolo, molto sfaccettati sotto l'angolo visuale delle esperienze culturali e ordinamentali, solo prescindendo da aprioristiche, convenzionali o, peggio, svogliate o dilettantesche delimitazioni documentarie, quella sorta di condizione separata in cui per più motivi versa tuttora lo studio storico del diritto pubblico e privato immediatamente pregiustinianeo potrebbe trovare un arricchimento tale da consentire il coinvolgimento positivo di nuovi e mai troppo numerosi apporti testuali e assieme, ma in una luce ovviamente diversa, delle ordinarie fonti giuridiche. I possibili e rinnovati osservatòri suggeriti al giusromanista da opzioni metodologiche e documentarie “altre” da quelle strettamente tradizionali – diverse, giusto per esempio, da quelle uggiosamente distratte rispetto alla larga produzione legislativa della seconda metà del V secolo (si pensi, per esempio, alla costante indifferenza per l'abbondante ma sostanzialmente trascurata legislazione anastasiana) – potrebbero offrire il destro per lumeggiare i non pochi segmenti ancora davvero bui del "tardissimo" ordinamento giuridico dei Romani: di quel lungo momento, cioè, in cui esso con difficoltà continuava parzialmente a regolare, in Occidente, una realtà socio-antropologica e istituzionale che non sarebbe mai più stata solo romana e che al contempo, in Oriente, in una situazione di minore turbamento politico, si avviava a strutturare i prodromi del medioevo bizantino.
Non è pensabile che numerosi e corposi spunti ricostruttivi pur presenti nelle fonti, sia in quelle tecnicamente giuridiche sia nelle altre, letterarie, per esempio, ed ecclesiastiche, continuino a permanere infruttuosi sul terreno, consentendo il persistere di una nutrita serie di vuoti profondi e, ma solo da parte di qualcuno, di pressanti interrogativi.
Nel tanto che rimane da fare all’interno delle indagini sul Tardoantico, senza alcun dubbio lo storico del diritto ha il dovere di offrire la propria capacità di scavare nei vari risvolti del molto materiale normativo ordinatamente disponibile. Egli, però, ha anche l’obbligo di non sottrarsi alla lettura, resa poi accessibile pure agli altri specialisti, di ogni diversa referenza giuridica che riesca a individuare altrove: negli Atti dei concìli, nelle pagine degli antichi storici-ecclesiastici oppure, perché no, nella produzione letteraria (epistulae, sermoni, allocuzioni) delle tante personalità che con le corti costantinopolitana e ravennate ebbero contatti particolarmente intensi nei tormentati anni del V secolo. Insomma, solo l’esegesi dei più diversi testi effettuata dal giusromanista, e la conseguente ricostruzione storiografica, possono consentire un’adeguata esplorazione di taluni aspetti della realtà tarda tuttora considerati alla stregua di veri e propri territori di frontiera, perciò parzialmente ancora inesplorati.
Questi aspetti, spesso ritenuti estranei, almeno di solito, alle prospettive di fondo sia della storia del diritto, sia della storia politica ed economica, sia, ancora, della storia della chiesa – a volte soltanto per pigrizia culturale oppure, ma tristemente, per conformismo disciplinare –, costituiscono invece l’oggetto concreto di un reale mélange di interessi. L’attenzione per essi non è altro che la manifestazione tangibile di come obiettivi interdisciplinari, perseguiti con una metodologia di fatto parimenti interdisciplinare, possano diventare la migliore chiave di lettura per la conoscenza più intensa e credibile dell’evo tardoantico. Un tempo, questo, e massime il V secolo con le sue accelerazioni ordinamentali, le addensazioni istituzionali, le destrutturazioni sociali e politiche – penso, qui, alla novità (di fatto sofferta) della realizzazione del Codice Teodosiano, all’affermarsi della primazia papale e dell’auctoritas dei concìli ecumenici [30], alla “contaminante” sistemazione dei Goti nel mondo italico – non proprio radicalmente estraneo al nostro presente: entrambi estremamente complessi eppure, bisogna riconoscere, fortemente esuberanti di lieviti di cambiamento.
2.
Per andare al cuore della storia giuridica del V secolo appare assolutamente imprescinbile, e perciò non più rinviabile come fino a oggi, salvo che in poche occasioni [31], invece si è fatto, occuparsi del Codice Teodosiano e della sua funzione sistemica [32]. Occorre, cioè, per una volta trascurando i contenuti minuti di questi sedici libri legum, senz’altro guardare al ruolo stabilizzatore da esso rappresentato in un contesto ordinamentale costituitosi, per tradizione solida e antichissima, alluvionalmente.
Basta solo che si rifletta, giusto per esempio, sulla fama ancora goduta negli anni di Teodosio II, e bene al di fuori dell’ambiente degli operatori di diritto, non solo com’è noto dai grandi prudentes del secolo severiano – quelli pragmaticamente menzionati con Gaio nella legge in CTh. 1, 4, 3 e divenuti ancoraggio nell’attività dei tribunali [33] –, ma persino dal giurista dioclezianeo Ermogeniano, oggi generalmente ritenuto un autore minore, rispetto a tanti celebri predecessori, nell’ampia e sofisticata parabola della romana scientia iuris [34]: è il caso della testimonianza lasciataci dal poeta cristiano Celio Sedulio [35], probabilmente operante nella prima metà del V secolo [36]. Il tardo ma preciso ricordo delle speciali qualità scientifiche di questo “divulgatore giuridico” (doctissimus iurislator Hermogenianus), uomo che negli anni suoi era stato organico all’apparato burocratico e autore sia d’una raccolta di responsa imperatòri, sia di un singolare compendio giurisprudenziale forse redatto ad uso interno dell’amministrazione [37], fa oggi intuire perfettamente, anche ai non specialisti, quale fosse l’entità e la varietà dell’accumulo dei materiali di diritto fisiologicamente pervenuti ai Romani, nel Tardoantico, anche da epoche lontanissime. La Parafrasi gaiana di Autun, come sappiamo bene, la cosiddetta Epitome Ulpiani, le Pauli Sententiae, la Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, l’antologia dei Fragmenta Vaticana, con tanto tanto altro diritto sia autoritativo sia d’autore dei secoli precedenti, costituivano una parte della massa abnorme e disordinata, peraltro non sempre tutta e dovunque recuperabile, cui attingere – assieme ai molti materiali sovrani fruibili, laddove possibile, grazie ai servizi offerti dalle cancellerie e dagli archivi pubblici – per la pratica quotidiana del diritto da parte dei cives, ma anche per l’esercizio della didattica giuridica, lo svolgimento dell’attività forense, la costruzione della politica legislativa, la gestione di governo della cosa pubblica e, a latere di quest’ultima, l’amministrazione difficoltosa della giustizia [38].
Ebbene, l’impiego universale del Teodosiano a partire dal gennaio del 439 [39] – davvero l’espressione politica pressoché compiuta di una mentalità irreversibilmente legalistica [40] – avrebbe completamente stravolto questo modo tardo di pensare al “sistema” del diritto come a un composto negativamente vastissimo, a dir poco complesso, assolutamente disomogeneo, più che spesso caliginoso [41].
La caparbia e operativamente consapevole progettazione del Codex, la sua altalenante gestazione compositiva (in qualche modo avviatasi, nei fatti, già nel lontano 426 con quella singolare consolidazione rappresentatata dalla cosiddetta legge delle citazioni) e il senso politico a esso ufficialmente attribuito, con intenzione specifica, dalle cancellerie delle due partes imperii – è esplicito, in tale direzione, già il momento stesso scelto per la pubblicazione occidentale, ovvero l’opzione per la significativa giornata del Natale 438 –, prima ancora che la sua strutturazione formale e i contenuti in gran parte obiettivamente nuovi, inducono oggi a valutarne senz’altro la modernità della funzione ordinamentale [42]: i materiali giuridici tràditi dal passato intanto rimanevano fruibili agli utentes in quanto “consentiti” dalle leges ordinate nel Codice, come per esempio avrebbe esplicitato Teodosio II, a chiare lettere, nella novella de Codicis auctoritate del febbraio 438 [43].
Tutto ciò spinge a tenere conto, in qualche maniera, dell’accelerazione culturale rappresentata da questo prodotto della politica legislativa teodosiana in una storia giuridica consuetudinariamente fatta, con lentezza plurisecolare, di sedimentazioni veramente remote, talora finanche arcaiche (esemplare il caso delle norme decemvirali), e di continui, frastagliati, contraddittòri accumuli (le tracce dell’autonormazione pretorile, i resti degli interventi autoritativi del senatus, i risultati scientifici del respondere degli auctores, l’iperproduzione rescrivente dioclezianea, le leges di due cancellerie talora rincorrentisi): effettivamente, quasi sempre, veri e propri “dialoghi fuori del tempo” [44], ma dinamici e costruttivi solo grazie al vantaggioso lavorio, ormai disperatamente assente in epoca tardoantica, d’una colta e autorevole giurisprudenza d'autore.
E tuttavia, l'attenzione storicamente richiesta dall’apparire ufficiale e ormai tendenzialmente esclusivo del Codex Theodosianus nel quadro tardoantico delle tradizionali fonti del ius Romanorum non solo non distrae dall’affrontare altre urgenti questioni contemporanee, problematiche cioè proprie del V secolo, ma addirittura sembrerebbe indurre il giurista a porsi per la stessa età anche interrogativi in un certo senso parzialmente nuovi.
Poiché in qualche misura è vero, come già si apprende con immediata evidenza dalla “logica” degli undici tituli dell’ultimo libro teodosiano (De fide catholica, [...] De his, qui super religone contendunt, [...] Ne sanctum baptisma iteretur, [...] De religione), che le “costituzioni imperiali [...] ricevono e impongono i dogmi, la catholica lex, segnando così il discrimine tra ortodossia ed eresia” [45], è altrettanto vero come non ci si possa sottrarre al difficile compito di individuare i modi della presenza della formula fidei cristiana all’interno dei testi giuridici dell’epoca. E questo non foss’altro perché, sul piano pratico, l’imponente esperienza mondana della ecclesia, com’è ovvio niente affatto indifferente agli atteggiamenti normativi dell’impero [46], quasi a metà del V secolo appariva ormai densissima, capillarmente distribuita a più livelli sia al centro sia in periferia, e definitivamente articolata in una ben precisa e robusta organizzazione gerarchizzata anche se non ovunque ugualmente compatta [47].
Solo grazie alla puntuale esegesi dei documenti disponibili, da quelli teodosiani e fino alla ricca legislazione anastasiana, dopo aver tentato di stabilire il rapporto esistente nel materiale normativo tra teologia, politica e diritto stricto sensu, potrebbe non essere difficile indicare efficacemente il reale spessore del preteso “orientamento religioso” del ius tardoromano [48].
Soprattutto, al di là delle affermazioni politiche del legislatore medesimo che, quasi col timbro di un sermone chiesastico, dichiarava la politeía dei Romani fondata assai più sulla religio che sull'impegno civile e sul lavoro materiale [49], sarebbe necessario definire l’esatto collocarsi della normazione rispetto al nocciolo centrale della religione cattolica, ovvero il Symbolum fidei [50]. Non va dimenticato, infatti, come tutta la prima parte del V secolo, in certa misura idealmente a ridosso del sinodo costantinopolitano del 381, avrebbe visto fiorire una stagione conciliare davvero fondante per la riflessione teologica cristiana e in più sensi aggregante, in maniera definitiva, per le universali strutture istituzionali della catholica ecclesia [51]. I sinodi ecumenici di Efeso (a. 431) e di Calcedonia (a. 451), senza tralasciare il ricordo del sinodo generale di Efeso che Teodosio II, in ultimo pencolante per il monofisismo, nel 449 avrebbe cercato legislativamente di accreditare come concilio ecumenico [52], con le loro decisioni dogmatiche e con i canoni disciplinari avrebbero invero suscitato sentite adesioni e violente reazioni un po’ dappertutto nel Mediterraneo: tutti atteggiamenti che sul lungo periodo, fino al principato di Giustino I all’inizio del VI secolo – non foss’altro che per le forti implicazioni d'ordine pubblico e, talora, per i connessi pericolosi rischi di erosione istituzionale o territoriale [53] –, avrebbero fortemente indirizzato buona parte delle opzioni normative delle cancellerie [54].
Anzi, per il secondo cinquantennio del V secolo, le scelte religiose del legislatore nei riguardi delle posizioni conciliari sarebbero state quasi da sole, a parere di certa coraggiosa pubblicistica protobizantina di matrice ecclesiastica, finanche la cifra caratterizzante la “legittimità” del principe costantinopolitano. Non altro avrebbe infatti testimoniato, alla metà del VI secolo, contro la pressione politico-ecclesiale giustinianea nell'affare dei Tre Capitoli lo sguardo retrospettivo vòlto ai decenni successivi a Teodosio II da Facondo, sacerdos di Ermiane, con la Pro defensione trium capitularum [55]: la posizione anticalcedonese del basiléus sarebbe stata quella che, a parere del vescovo africano, nella sostanza gli avrebbe impedito di apparire “princeps verus reipublicae pater et verus Ecclesiae filius” [56] agli occhi di chiunque tra i sudditi-fideles, come al contrario erano sembrati, perché perfettamente allineati al Credo dell’ultimo concilio ecumenico, e quindi all’ortodosso Simbolo calcedonese, una buona parte dei suoi predecessori [57].
Ed effettivamente, se davvero si vuole tener conto della ormai ineludibile esistenza, nell’inoltrato V secolo, della catholica lex conciliare nel più ampio contesto culturale giuridico – ovvero dell’attenzione sostanziale e formale del ius per la Formula di fede stabilita dal sinodo ecumenico –, è sufficiente che solo si guardi a quanto prodotto dal legislatore d’Oriente, e dunque a quanto realizzato ai livelli più diversi dell'ordinamento presso quei Romani ben poco distratti nella loro quotidianità, a differenza di quelli occidentali, dal preoccupante migrare e poi stanziarsi barbarico.
È più che significativo, per esempio, quanto richiesto con fermezza nel 468 dalla cancelleria di Leone I con un editto che noi leggiamo in due diversi luoghi del Codex di Giustiniano [58]: chi da allora in avanti avesse voluto esercitare la professione forense, oltre al rispetto di regole professionali altrove stabilite [59], avrebbe anche dovuto professare la sacrosancta catholica religio [60], quella centrata sul Simbolo in ultimo stabilito dal sinodo calcedonese e ufficialmente abbracciata dallo stesso legislatore sin dagli esordi del regno [61]. Le conseguenze gravissime che avrebbe incontrato colui che avesse contravvenuto a tale disposizione, fosse egli stato il privato interessato ad accedere al ruolo di avvocato come pure, per omessa sorveglianza, l’ufficio imperiale deputato al relativo controllo, fanno perfettamente intendere l'importanza attribuita dagli organi di governo al credo religioso degli operatori di giustizia: quasi che alle caratteristiche del complesso delle attività processuali non fosse aliena una sorta di patina di (benefica) religiosità sostanziale, una velatura positiva, questa, ovviamente assente nelle connotazioni morali di coloro che, invece, avessero professato una fede eterodossa, un Credo non conciliare [62].
Quasi la pervasività, all’interno dell’ordinamento giuridico del V secolo, delle decisioni dogmatiche e disciplinari assunte nel sinodo ecumenico di Calcedonia andrebbe dunque puntualmente verificata con gli strumenti tipici della ricerca giusromanistica [63]: finanche la prassi giuspubblicistica della successione imperatoria, per esempio, non sarebbe rimasta esente, per così dire, dalle prementi “influenze” della fede conciliare. Valgano come campione più che significativo le effervescenze costituzionali sviluppatesi alla morte di Zenone Isaurico, nel 491, a causa della scelta per il trono costantinopolitano dell’anziano silenziario Anastasio, un candidato di fede non calcedonese, e anzi, a parere di autori fededegni, addirittura un fervente filomonofisita [64]. Per l’intronizzazione del nuovo principe non sarebbero bastati i consueti passaggi previsti dagli exempla costituzionalmente rilevanti ormai consolidatisi nel tempo: l’indicazione proveniente dalla vedova Augusta, l'approvazione manifestata da senatori e dignitari, le pressioni dei partiti cittadini riuniti nell’Ippodromo, l’esibizione di modestia e di scarso attaccamento al potere da parte del prescelto [65]. Sarebbe infatti occorso, come condizione necessaria e niente affatto eludibibile, il rilascio nelle mani del Patriarca della capitale di una dichiarazione autografa, un chirographum, attestante l’impegno esplicito del pretendente al principato, per il futuro, a una sostanziale difesa (forse il giuramento di una passiva “non offesa”) dell’ortodossia calcedonese [66]: si sarebbe trattato, in buona sostanza, del prezzo pagato dal designato alla porpora per ottenere il consenso politico all’adventus, e quindi lo svolgimento di un ruolo attivo nell’incoronazione, da parte del massimo rappresentante locale della chiesa conciliare, il vescovo di Costantinopoli [67].
Insomma, e per recingere in qualche maniera questa sorta di rapsodico affastellamento di spunti di riflessione originato tutto e solo dalle sollecitazioni provenienti da problemi e fonti, giuridiche e non, relative a “questioni di V secolo” pare che effettivamente il cinquantennio del principato teodosiano e, visto l’odierno vivo interesse per l’Occidente romanobarbarico, forse ancor più l’estensione degli anni marcianei-anastasiani – e al suo interno i principati di Leone, Zenone e il breve intervallo di Basilisco – meritino quell’attenzione e quello spazio giusromanistici fino a oggi usualmente lesinati nel panorama scientifico internazionale.
In definitiva, non sono soltanto i molti e irreversibili accadimenti di quei cent’anni che sollecitano in tal senso (dalle speranze, tristemente deluse, di restaurazione culturale e politica esternate del pagano Rutilio, ancora regnante uno dei figli di Teodosio I, nel De reditu suo [68], fino al monarchico accesso romano, nell'anno 500, del goto Teoderico [69]; dalla separazione, per difetto di comunione sul Simbolo e per ragioni di “primato”, dell’ecclesia romana di papa Felice da quella costantinopolitana del patriarca Acacio [70], fino all’oculata pratica di governo di Anastasio dei cui risultati avrebbe ampiamente beneficiato la grande politica giustinianea [71]), è l’evidenza stessa del ritmo sussultorio assunto dall’ordinamento – apicale in tal senso appare l’inusitata pubblicazione di un Codex legum ufficiale, il Teodosiano – che spinge a interrogare testi antichi con curiosità nuove.
Ciò che urge, in definitiva, per cogliere le feraci contraddizioni del mondo tardoantico e misurare, in qualche modo, le forme e la qualità del diritto del lungo tratto temporale individuato, è la necessità di lasciarsi coinvolgere anche da quesiti tradizionalmente eccentrici per la storia del diritto, di approfondire ogni tipo di materiale documentario rinvenibile, di osare nel tentativo di proporre ipotesi di lettura e con esse, magari con “prudente azzardo”, finanche coraggiose congetture ricostruttive.
* * *
[1] Ho messo assieme qualche minima osservazione sull’implementato ma “azzardoso” interesse scientifico attuale degli studiosi di diritto romano per il mondo tardoantico; vd. Prefazione a F. Pergami, Nuovi studi di diritto romano tardoantico, Torino, 2014, IX s. Qui, per le ragioni da cui questo scritto è motivato, riduco all’essenziale il rinvio alla bibliografia specialistica, del resto ben nota ai ricercatori.
[2] È encomiabile, per esempio, non solo la più che quarantennale attività dell’Accademia Romanistica Costantiniana, ma anche il variegato impegno che l’Università bolognese sta profondendo ora sul tema di “Ravenna-capitale” e sui problemi di diritto a esso collegati: vicini sono i convegni su rilevanti questioni processuali riguardanti l’Occidente (ottobre 2014) e su alcuni problemi giuridici, occidentali, relativi all'uso della terra in età tarda (ottobre 2015).
[3] Io sono fra coloro che, sulla linea di stretto interesse giuridico, proprio non riescono ad abbassare la soglia del Tardoantico più indietro della Tetrarchia (vd. invece L. De Giovanni, Diritto e storia. La tarda antichità, Napoli, 2015); nell’ambito della vera e propria fioritura prodottasi sul periodo fino al sec. VII vd. ora, importante ma ancora solo per l’Occidente, P. Brown, The Ranson of the Soul: Afterlife and Wealth in Early Western Christianity, Harvard, 2015.
[4] Per es. A. S. Scarcella, La legislazione di Leone I, Milano, 1997.
[5] Vd. la miscellanea Governare e riformare l’impero al momento della sua divisione: Oriente, Occidente, Illirico. Atti dell’omonimo convegno Roma 2011, curr. U. Roberto-L. Mecella, ivi 2015 (= http://books.openedition,org/efr/2788).
[6] È importante, già solo per la scelta del materiale indagato riguardante Occidente e Oriente assieme, S. Pietrini, Religio e Ius Romanum nell’epistolario di Leone Magno, Milano, 2002.
[7] Un comodo strumento, intenzionalmente rivolto alla sola realtà non orientale, è O. Licandro, L’Occidente senza imperatori. Vicende politiche e costituzionali nell’ultimo secolo dell’impero romano d’Occidente 455-565 d.C., Roma, 2012; vd. infra nt. 9, e adde Derecho, Cultura y Sociedad en la Antigüedad Tardía, cur. E. Osaba García, Bilbao, 2015.
[8] Più che apprezzabile per i risultati conseguiti e per la prospettiva prescelta è il bel volume Civitas, Iura, Arma. Organizzazioni militari, istituzioni giuridiche e strutture sociali alle origini dell’Europa (secc. III-VIII). Atti Seminario Cagliari, 2012, curr. F. Botta-L. Loschiavo, Lecce, 2015; lavori giuridicamente interessanti sono in New Perspectives on Late Antiquity in the Eastern Roman Empire, curr. A. de Francisco-D. Hernández de la Fuente-S. Torres Prieto, Newcastle upon Tyne, 2014, cui adde A. Laniado, Ethnos et droit dans le monde protobyzantin, V-VI siècle: fédérés, paysans et provinciaux à la lumière d'une scholie juridique de l'époque de Justinien, Genève, 2014.
[9] Per l’Occidente si vd. ora O. Licandro, L’irruzione del legislatore romano-germanico. Legge, consuetudine e giuristi nella crisi dell'Occidente imperiale (V-VI sec. d. C.), Napoli 2015.
[10] Cfr. J. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima collectio, Florentiae dal 1759 vari voll. Si serve ancora del solo Mansi finanche la recentissima utile raccolta Latin imperial laws and letters (A.D. 306-565) not included in the Codes and Novels of Theodosius and Iustinianus, cur. I. G. Maier, Melbourne, 2010-12 (rev.6): http://members.iinet.net.au/~igmaier/extracod.pdf.
[11] Cfr. Acta Conciliorum Oecumenicorum, ed. Ed. Schwartz (contin. J. Straub), Berolini-Lipsiae dal 1914 in più voll. e tomi; vd. ora Crux interpretum. Ein kritischer Ruuckblick auf das Werk von Eduard Schwartz, curr. U. Heil- A. von Stockhausen, Berlin-Boston, 2015 (e ivi spec. i contributi di E. Mühlenberg e H. Drecoll).
[12] Vd. G. Barone Adesi, Monachesimo ortodosso d'Oriente e diritto romano nel tardo antico, Milano, 1990.
[13] Per es., vd. i risultati che sono nel mio Ius principale e catholica lex (secolo V), Napoli, 19992, spec. 286 ss.
[14] Vd. Barone Adesi, Monachesimo cit. 325 ss.; prima vd. L. Ueding, Die Kanones von Chalkedon in ihrer Bedeutung für Mönchtum und Klerus, in Das Konzil von Chalkedon. Geschichte und Gegenwart 2. Entscheidung um Chalkedon, curr. A. Grillmeier-H. Bacht, Würzburg 19795, 569 ss.
[15] È apprezzabile, per es., la massa di materiale ufficiale preconciliare che è negli Atti efesini; vd. comodamente Ephèse et Chalcédoine. Actes des conciles, tr. A. J. Festugière, Paris 1982, 27 ss.
[16] Cfr. per es. il testo che è in ACO 2, 1, 3 n. 25 (122-124 [481-483]); adde ACO 2, 3, 2 n. 108 (90-93 [349-352]); vd. E. Dovere, Dissenso eutichiano e leggi repressive: aa. 452 e 455, ora in Id., Medicina legum III. Credo di Calcedonia e legislazione d'urgenza, Bari, 2013, n. 7.
[17] Vd. G. G. Archi, Sulla cosiddetta ‘massimazione’ delle costituzioni imperiali, da ultimo in Id., Studi sulle fonti del diritto nel tardo impero romano. Teodosio II e Giustiniano, Cagliari, 19902, 101 ss.
[18] Significativo è un provvedimento di Teodosio II, emanato nel 449 e cancellato tre anni appresso per ragioni politico-religiose; esso è presente solo negli Atti calcedonesi: cfr. ACO 2, 3, 2, 88-89 (347 s.). Vd. il mio Legislazione e sinodo ecumenico a metà del V secolo, ora in Id., Medicina legum III cit. n. 5.
[19] Vd. ora L’historiographie tardo-antique et la transmission des savoirs, Ph. Blaudeau (cur.), Berlin 2015; adde Antiquité tardive-Late Antiquity-Spátantike-Tarda Antichità 22. L’Orient chrétien de Constantin et d'Eusèbe de Césarée, Turnhout, 2014.
[20] Con un minimo rilievo giuspubblicistico vd. A. Mastrocinque, “Due note elleniche II. L’imperatore Marciano e l’ombra dell’aquila”, in AIV 138 (1979-80) 557 ss., su Evagr. Hist. eccl. 2, 1: Bidez-Parmentier 37, 33-38, 1-7.
[21] Basterebbe ricordare l'intensa attività svolta, per la Berlin-Brandenburgische Akademie der Wissenschaften, dal compianto Günther Christian Hansen sulle Historiae di Sozomeno (1960), Teodoro Anagnoste (19952), Socrate Scolastico (1995), Teodoreto di Cirro (19983), Gelasio di Cizico (2002).
[22] Cfr., per es., Socr. Hist. eccl. 1, 1, 3 e 2, 1, 5 s.: Hansen 1, 10-14 e 92, 19-27.
[23] Di rilievo cfr. Sozom. Hist. eccl. 1, 1: PG 67, 854 ss.
[24] In merito a CI. 1, 1, 3 cfr. per es. Evagr. Hist. eccl. 1, 12: Bidez-Parmentier 20, 20 ss.
[25] Evagrio è l’unico di costoro che, benché accurato narratore per il V secolo, avrebbe scritto in epoca largamente postgiustinianea; vd. A. Jülicher, s. v. “Euagrios (Scholaticus) 7”, in PWRE 6, 1 (1907) 833; A. de Halleux, s. v. “Évagre le Scolastique”, in Dict. hist. géogr. eccl. 16 suppl. (1967) 1495-98.
[26]Cfr. Sozom. Hist. eccl. 1, 1: PG 67, 862B.
[27] M. Mazza, “Lo storico, la fede ed il principe. Sulla teoria della storiografia ecclesiastica in Socrate e Sozomeno”, infine in Id., Le maschere del potere. Cultura e politica nella tarda antichità, Napoli, 1986, 255 ss., qui 311 e 317.
[28] Evagrio, per es., che fu quaestor ed ex praefectis, fu anche avvocato di Gregorio, vescovo di Antiochia, in una non chiara vicenda giudiziaria: Evagr. Hist. eccl. 6, 24: Bidez-Parmentier 240, 29-33.
[29] Cfr. Socr. Hist. eccl. 2, 1, 5: Hansen 92, 19-27.
[30] Su questi due ultimi temi la letteratura è sterminata; vd., in coda a una lunga teoria di studi (basti ricordare i lavori di Sieben o quelli di Maccarrone), W. Klausnitzer, Der Primat des Bischofs von Rom. Entwicklung-Dogma-Ökumenische Zukunft, Freiburg, 2010; D. Salachas, I criteri circa l'ecumenicità di un concilio nella prassi dei primi secoli, in Iura Orientalia 9 (2013), 180 ss.
[31] Vd. il “pionieristico” G. G. Archi, Teodosio II e la sua codificazione, Napoli, 1976, massime 96 ss.; poi P. Cerami, in Id.- G. Purpura, Profilo storico-giurisprudenziale del diritto pubblico romano, Torino, 2007, 331 ss. (ma pure 251 ss. e 334 s.), e già prima (seguito da G. Mancuso, Profilo pubblicistico del diritto romano, Catania, 2003, 136 s.) Id., Potere e ordinamento nella esperienza romana, Torino, 19963, 212. Adde J. F. Matthews, Laying Down the Law. A Study of the Theodosian Code, New Haven-London, 2000 (con bibl.); con talune idee non proprio condivisibili vd. A. J. B. Sirks, The Theodosian Code. A Study, Friedrichsdorf, 2007. Spunti interessanti sono ora in più d'un contributo (Atzeri, Baldus, Falcone, Miglietta) presente nei Seminarios Complutenses de Derecho Romano 28 (2015), En memoria de José María Coma Fort.
[32] Vd. E. Dovere, “Sistema delle fonti e legge-Codice: il Codex Theodosianus”, in Principios Generales del Derecho. Antecedentes históricos y horizonte actual, coord. F. Reinoso-Barbero, Madrid, 2014, 149 ss. (= in Κοινωνια 37 [2013] 23 ss.).
[33] In bibliografia vd. solo A. C. Fernández Cano, La llamada “ley de Citas” en su contexto histórico, Madrid, 2000 (ora vd. M. U. Sperandio, “Gai scripta universa”. Note su Gaio e la “legge delle citazioni”, in SDHI 79 [2013] 153 ss.).
[34] Ma vd. F. Wieacker, “Le droit romain de la mort d’Alexandre Sévère à l’avènement de Dioclétien” (235-284 apr. J.-C.), in RD 49 (1971) 201 ss., spec. 223.
[35] Cfr. Pasch. op., 2 ep. ad Macedonium: Hümer 172, 8-13 (= PL 19, 547B): [...] cognoscant Hermogenianum, doctissimum iurislatorem, tres editiones sui operis confecisse, cognoscant peritissimum divinae legis Origenem, tribus nihilominus editionibus prope cuncta quae disseruit aptavisse.
[36] L’opera di Sedulio risale a prima del 431; così C. Moreschini-E. Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina 2, 2, Brescia, 1996, 646 (ma vd. M. von Albrecht, Storia della letteratura latina 3, tr. A. Setaioli, Torino 1996, 1374). Ora vd. R. Mori, Sedulio: tra prosa e poesia, Padova, 2013.
[37] Vd. il mio Gli orizzonti dei libri iuris ermogenianei, in Römische Jurisprudenz-Dogmatik, Überlieferung, Rezeption. Festschrift Liebs, cur. K. Muscheler, Berlin, 2011, 187 ss.
[38] Insiste sulla confusio regnante dei tribunali L. De Giovanni, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma, 2010 (rist. Pbk), 333 ss.; Id., Il “problema giustizia” nel Tardoantico, in Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI secolo d. C.). Atti Convegno Perugia 2008, curr. G. Bonamente-R. Lizzi Testa, Bari, 2010, 171 ss.; Id., Gli imperatori e la “giustizia”, in Società e diritto nella tarda antichità, cur. Id., Napoli, 2012, 89 ss.
[39] In una dottrina sostanzialmente concorde vd. però Sirks, The Theodosian Code, cit.; adde ora S. Barbati, “Idee vecchie e nuove sull’entrata in vigore del Codice Teodosiano in occidente”, in IAH 7 (2015) 11 ss. (che mi propongo di discutere in altra occasione).
[40] Vd. G. Purpura, “La compilazione del Codice Teodosiano e la Lex Digna”, in Studi Metro 5, cur. C. Russo Ruggeri, Milano, 2010, 163 ss. (= in http://www.studitardoantichi.org/home/art1/0/1080/1227/La-compilazione-del-Codice-Teodosiano-e-la-Lex-Digna.html).
[41] Benché autocelebrativa, è in tal senso esplicita NovTheod. 1, 1-3 (cfr. le fonti, notissime, ora studiate da De Giovanni: vd. supra nt. 38).
[42] Vd. E. Dovere, “Epifania politica del Theodosianus: la pubblicazione romana del Codex”, ora in MEFRA 125 (2013; http://mefra.revues.org/1742= Codifications et réformes dans l’Empire tardif et les royaumes barbares. Atti Tavola rotonda Roma 2009, cur. O. Huck).
[43] Cfr. NovTheod. 1, 6; ricorda ora questo passaggio anche S. Kerneis, “Rome et les barbares. Aux origines de la personnalité des lois”, in Civitas, Iura, Arma cit. 103 ss.
[44] Così il titolo di un § di M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari, 200410 (ML), 309.
[45] F. Casavola, Prefazione a Dovere, Ius principale cit. XIV.
[46] Vd. M. Mazza, L’autorità della legge e la cristianizzazione dell’impero: qualche (breve) considerazione sul libro XVI del Teodosiano, in Governare e riformare l'impero cit. (= http://books.openedition,org/efr/2828).
[47] In una letteratura sterminata vd. R. Janin, La géographie ecclésiastique de l’empir byzantin I. Le siège de Constantinople et le patriarcat oecuménique, Paris 19692; W. de Vries, “Die Struktur der Kirche gemäss dem Konzil von Chalkedon”, in OCP 35 (1969) 63 ss.; R. P. C. Hanson, “The Reaction of the Church to the Collapse of the Western Roman Empire in Fifth Century”, in VetChr 26 (1972) 272 ss.; N.-V. Dura, “L’Église chrétienne aux quatre premiers siècles. Son organisation et ses fondements canoniques”, in Ortodoxia 34 (1982) 451 ss.; S. G. Hall, “The organisation of the church”, in The Cambr. Anc. Hist. XIV. Late Antiquity, curr. Av. Cameron-B. Ward-Perkins-M. Whitby, Cambridge 2000, 731 ss.
[48] Si tratta, come si sa, di un titolo divenuto “classico”: vd. B. Biondi, Il diritto romano cristiano 1. Orientamento religioso della legislazione, Milano 1952; va qui segnalata l'isolata attenzione manualistica per il contesto cristiano di S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana. Parte terza, Milano 2010, 204 ss.
[49] Cfr. CTh. 16, 2, 16 (non un unicum): [...] scientes magis religionibus quam officiis et labore corporis vel sudore nostram rem publicam contineri.
[50] Vd. gli interrogativi posti dal teologo A. Milano, Rec. in Augustinianum 37 (1997) 243 ss.
[51] Qui la bibliografia è impressionante; basti quella che, su una linea storico-giuridica, ho concentrato in Ius principale cit., cap. I. Vd. supra nt. 47.
[52] Cfr. la legge negli ACO: vd. supra nt. 18.
[53] Per es., cfr. CI. 1, 5, 8 e 1, 7, 6.
[54] Per ciascuno dei prìncipi del V secolo si potrebbero individuare scelte legislative connesse al Simbolo di fede cattolico; cfr., di Teodosio II, CTh. 16, 5, 66 (lectio completa in ACO 1, 1, 3, 68) relativa agli Atti del concilio di Efeso (a. 435); CI. 1, 1, 4 di Marciano (a. 452), a difesa del Credo di Calcedonia; Evagr. Hist. eccl. 3, 4: Bidez-Parmentier 101 ss. (PG 86b, 2600-2604B) per l’Enciclica di Basilisco (a. 475), una vera e propria legge filomonofisita; CI. 1, 2, 16 di Zenone (a. 476), un provvedimento ortodosso a difesa della fede calcedonese.
[55] Sulla questione dei Tre Capitoli, ovvero la condanna imperiale e poi papale dei vescovi antimonofisiti Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirro e Ibas di Edessa, ancora oggi oggetto di ricerca, appare qui sufficiente la breve monografia di C. Capizzi, Giustiniano I tra politica e religione, Soveria Mannelli-Messina, 1994, 97 ss.
[56] Cfr. Facund. Defensio 12, 2, 23 ss.: Clément-Vander Plaetse 381, 184 ss.
[57] Si vd. H. Rahner, Chiesa e struttura politica nel cristianesimo primitivo. Documenti della chiesa dei primi otto secoli, tr. M. Morani-G. Regoliosi, Milano 19902, 189 ss., spec. doc. 26.
[58] Cfr. CI. 1, 4, 15 e 2, 6, 8.
[59] Sul punto vd. Scarcella, La legislazione di Leone I cit. 324 con fonti e letteratura.
[60] Cfr. pure CTh. 1, 55, 8 pr. (a. 409) e poi CI. 1, 55, 11 (a. 505).
[61] La consultazione epistolare effettuata da Leone sostanzialmente a favore dell’ortodosso Credo calcedonese ci è raccontata, per es., da Evagr. Hist. eccl. 2, 9-10: Bidez-Parmentier 59, 18-62, 33.
[62] Cfr. CI. 1, 5, 12, 8 (a. 527).
[63] La letteratura su “Calcedonia” è ricca; vd. ora in M. R. Pecorara Maggi, Il processo a Calcedonia. Storia e interpretazione, Milano, 2006; I. Petriglieri, La definizione cristologica di Calcedonia nella cristologia italiana contemporanea, Roma, 2007.
[64] Cfr. Theoph. Chron. A. M. 5982: PG 108, 328A; adde infra nt. 66. Vd. L. Duchesne, “L’empereur Anastase et sa politique religieuse”, in MEFRA 32 (1912) 22 ss.
[65] Cfr. Const. Porphyr. De caerimon. 1, 92: PG 112, 772A, 776A, 777B, 785A; adde Cedren. Hist. comp.: PG 121, 681B.
[66] Cfr. Theod. Anagn. 446 s.: Hansen 125 s.; Evagr. Hist. eccl. 3, 32: Bidez-Parmentier 130, 1-12; adde Vict. Tunn. Chron. ad a. 491, 1 s.: Placanica 22.
[67] Analisi storico-giuridica è nel mio Percorsi della legittimità imperiale: il chirografo di Anastasio, ora in Id., Medicina legum I. Materiali tardoromani e formae dell’ordinamento giuridico, Bari, 2009, n. 8.
[68] È in De reditu 1, 161 (Fo) che il Namaziano, rassegnato sulle sorti della Romanitas di fronte a Goti e cristianesimo trionfanti, auspica solo di “posare infine la vita sulle terre dei [...] padri” suoi.
[69] Cfr. Anon. Vales. Pars post. [12] 65 s. (Mommsen).
[70] Nonostante recenti contributi (vd. Ph. Blaudeau, “Rome contre Alexandrie? L’interprétation pontificale de l'enjeu monophysite (de l’émergence de la controverse eutychienne au schisme acacien 448-484)”, in Adamantius 12 [2006] 140 ss.), è forse ancora sufficiente Ed. Schwartz, “Publizistische Sammlungen zum acacianischen Schisma”, in ABAW n. ser. 10 (1934) 209 ss.
[71] Cfr. Procop. Anect. 19, 7: Haury 3, 121, sull’enorme liquidità presente nelle casse dell'impero al momento della morte di Anastasio.
* * *
*E. DOVERE, "Il secolo del theodosianus. Riflessioni su materiali e metodo di studio", in Interpretatio Prudentium, Ano I, N.º 1, Lisboa, Teoria e História do Direito, Centro de Invbestigação da ULisboa (THD-ULisboa), 2016, pp.
Sommario | L'autore lamenta l'assenza di studi generali sul diritto del sec. V. In questa prospettiva, egli sottolinea l'utilità dello studio degli Acta dei concili ecumenici e delle opere degli storici della chiesa; in particolare, grazie ad alcune significative esemplificazioni, egli evidenzia la necessità dell'esame accurato dei rapporti ecclesia-imperium nel secolo precedente Giustiniano.
Parole-chiave | Secolo V, ordinamento giuridico, Codice Teodosiano, Acta Conciliorum Oecumenicorum , storia ecclesiastica, Credo cattolico.
Abstract | The author reports the absence of general studies on V century law. In this perspective, he underlines the benefit of the study of ecumenical councils Acta and the works of the Church historians. In particular, thanks to some significant examples, he highlights the importance of an accurate examination of ecclesia-imperium relations in the previous Justinian’s century.
Keywords | V century, Legal System, Theodosian Code, Acta Conciliorum Oecumenicorum, Ecclesiastical History, Catholic Creed.