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De verborum significatione e

legal drafting tra lingua e diritto*

 

Adelaide Caravaglios

Università degli Studi di Napoli, Federico II

 

 

 

 

1. Lingua giuridica e lingua comune: il diritto come discorso del legislatore... [1]

 

Il rapporto tra lingua e diritto, ius e sermo, linguaggio comune e linguaggio giuridico, è un rapporto fatto talora di somiglianze, di natura funzionale [2] e strutturale [3] talaltra di interferenze, di punti di contatto che si rivelano quando questi due sistemi, apparentemente così distanti, si ritrovano vicini, entrando, appunto, in contatto [4]: il linguaggio del diritto, infatti, è sì un linguaggio settoriale, sui generis, molto stratificato – così come è stato definito da alcuni [5]–, ma è pur sempre il prodotto di una miscellanea di linguaggio comune e linguaggi settoriali; il diritto non è un fatto di lingua, ma è lingua [6]; il diritto non si limita ad usare la lingua ma linguisticamente si manifesta.

 

Ora, lo studio del rapporto tra questi due sistemi non è “una scoperta dell’ultimo secolo e nemmeno dell’Ottocento” [7], ma affonda le proprie radici già “nel pensiero antico”; si tratta di un problema avvertito ancora oggi a tutti i livelli, quindi non soltanto dalla comunità giuridica [8], sempre più legata, nello scrivere così come nel parlare, a termini ampollosi, involuti, pieni di appesantimenti e concrezioni inutili [9], ma anche e – forse soprattutto – dai cittadini, fruitori ultimi del diritto, i quali non sempre sono messi in grado di decifrare il messaggio contenuto nei testi delle sentenze [10], in alcune norme giuridiche e/o nei provvedimenti amministrativi. Insomma troppo spesso accade che la specialità del linguaggio giuridico finisce con il tradursi in un ostacolo insormontabile alla lettura e comprensione dei testi di diritto da parte di chi non sia del settore.

 

Gli esempi all’uopo potrebbero essere numerosissimi, ma per brevità ci si limiterà a citarne soltanto qualcuno.

 

a) Consideriamo un’espressione del tipo: “il difensore chiede applicarsi all’imputato la diminuzione della pena”, espressione che, in termini di analisi linguistica, viene definita come sovraestensione dell’infinito in frase completiva [11]: ebbene se essa può risultare familiare, pronunciata in un ambito specialistico come è quello giuridico, riprodotta in un contesto completamente diverso, per così dire “comune”, e con un oggetto altrettanto diverso, potrebbe, viceversa, risultare meno familiare [12].

 

b) Ancora, si è detto che nelle prescrizioni tassative del codice penale il soggetto deve poter trovare, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato: in questi stessi termini si è espressa la Corte Costituzionale nella sentenza n. 364/88, pronunciandosi sull’ignorantia legis. A tal fine – ha spiegato il supremo organo di controllo costituzionale – “sono necessarie leggi precise, chiare, contenenti riconoscibili direttive di comportamento”. Ciò nondimeno a fronte di tali raccomandazioni, la stessa Corte ha finito con l’utilizzare in sede di dispositivo un linguaggio incomprensibile, rendendosi artefice di vere e proprie acrobazie linguistiche, perché nel dichiarare parzialmente illegittimo l’art. 5 c.p. [13], ha affermato – testuali parole – che tale illegittimità andava riferita “alla parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile”.

 

c) Senza andare troppo lontano, sia consentito un ultimo esempio che ha ad oggetto le stesse decisioni dei giudici di legittimità, le quali possono risultare di difficile comprensione se ci si imbatte in affermazioni di questo tipo: “[...] Nella resistenza della s.p.a. Sorgenti S. Stefano [...] che aveva proposto anche appello incidentale circa la dinamica dell’evento, la Corte salernitana, con sentenza 10 ottobre 2001, accoglieva il primo e rigettava il secondo condannando [...]” [14]. Anche questo tipo di formulazione, infatti, pone qualche problema di interpretazione, visto che da quanto riportato bisognerebbe arguire che la s.p.a. Sorgenti avrebbe resistito (alla sentenza) proponendo un primo appello, il principale, altrimenti risulta difficile, soprattutto per “chi non è del settore”, comprendere cosa voglia dire con “il primo” (che si riferisce, naturalmente, all’appello principale). Proseguendo nella lettura della medesima sentenza, si legge ancora che «[…] Quand’anche sia poi l’illegittimità dell’atto la componente essenziale dell’illiceità della condotta pubblica, appare ancora fortemente discussa la effettiva producenza del riconoscere risarcibili mere violazioni “procedimentali”».

 

2. (segue) … a latere dei professionisti

 

Il problema della qualità del linguaggio, come si diceva, è sentito, va affrontato e coinvolge le diverse categorie dell’ambito giuridico, quindi non soltanto quella relativa al/ai destinatario/-i del provvedimento o della sentenza, o quella delle autorità (intendendosi per tali, per esempio, l’autorità giudiziaria, un collegio arbitrale o, comunque, un’entità investita di potere decisionale), ma anche quella propria dei professionisti [15] (avvocati, legali d’impresa, notai), legati a forme e modelli frasali che ostano ad una chiara comprensione del testo e lasciano che il lettore inesperto (sia pur interessato alla materia) si smarrisca nella “selva delle proposizioni”. Anche a costoro è rivolto il monito della chiarezza e comprensibilità: di recente, per esempio, sono intervenuti i giudici della I Sezione del Consiglio di Stato [16], ammonendo gli avvocati che “la violazione del dovere di sinteticità e chiarezza degli atti processuali […], ove si traduca nell’assoluta difficoltà di comprensione del contenuto del ricorso, delle censure nello stesso svolte e delle richieste del ricorrente, comporta l’inammissibilità del ricorso proposto” [17].

 

Pare quasi, per ripetere le parole del sociologo tedesco, Jürgen Habermas [18], che l’attaccamento mostrato dai giuristi a certi modelli linguistici non faccia altro che perpetuare un conflitto irrisolto fra l’interesse del mittente (cioè il responsabile dell’atto giuridico) e quello del ricevente (il destinatario; nella maggior parte dei casi il cittadino interessato ad un dato testo giuridico): si ritiene, infatti, che da una parte, il mittente abbia tutto l’interesse a difendersi dalle possibili critiche che potrebbero essergli rivolte nell’esercizio autoritativo del potere [19]; dall’altra, invece, il ricevente abbia l’interesse, per così dire “contrario”, a comprendere il testo per poterlo fare proprio o, eventualmente, criticare.

 

Ora, questo non deve significare – si badi – argomentare in assoluto contro la specialità del linguaggio giuridico (che deve esserci), ma distinguere tra una specialità necessaria (di cui il giurista non può fare a meno [20]) ed una specialità non necessaria del linguaggio giuridico, tesa, quest’ultima, unicamente a rendere più complesso, artificioso ed incomprensibile il testo giuridico: in altre parole, promuovere una lettura più agevole dei provvedimenti [21].

 

3. Il problema in prospettiva europea

 

Un altro problema da affrontare prima di passare brevemente all’esame del modello proposto dagli antichi romani è quello che deriva dalla traduzione dei testi giuridici in lingue diverse dall’italiano, problema legato alla sempre maggiore influenza che le lingue straniere, entrate di prepotenza nel nostro panorama giuridico, esercitano sul relativo lessico [22]: in alcuni casi, rilevanti soprattutto in un’Unione Europea multilingue [23] e plurigiuridica [24] come la nostra, può accadere, infatti, che non sempre il vocabolo italiano adoperato per rendere il corrispondente lemma straniero e spiegarlo abbia lo stesso suo significato [25].

 

a) Per fare qualche esempio, si potrebbe prendere in considerazione il termine “contratto”, il quale, come noto, nell’ordinamento giuridico italiano è utilizzato per inquadrare non solo gli accordi negoziali [26], ma anche le promesse gratuite; purtuttavia “contratto” non è altrettanto valido per definire il matrimonio: ora, se si provasse a metterlo a confronto con il “corrispondente” [27] contract inglese, potrebbe notarsi come quest’ultimo non includa in sé (come significato prettamente giuridico) né le promesse gratuite, né tanto meno il matrimonio; si provi, ancora, a considerare il contrat francese: anche in questo caso il vocabolo di lingua straniera, corrispondente per assonanza, finisce con l’avere un significato differente, che è inclusivo del matrimonio [28].

 

b) Restando in tema, si potrebbe dare uno sguardo all’art. 2621 [29] del codice civile, tuttora in vigore: se lo si legge attentamente, infatti, si può notare da subito che vi è un chiaro errore di traduzione, dal momento che nel recepire una direttiva comunitaria, il legislatore italiano ha fatto espresso riferimento a “fatti materiali”, alludendo a quei material facts di matrice comunitaria, senza tuttavia lasciarne intendere il significato.

 

c) Infine, altro errore sembra essere contenuto nella versione in lingua italiana della direttiva 93/13, resa in materia di clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, per l’applicabilità della cui normativa di protezione è necessaria la violazione del requisito della buona fede: rispetto a quelle inglese, tedesca e francese [30] , infatti, il testo italiano contiene il diverso ed errato inciso “malgrado la buona fede”, a tal punto pericoloso da indurre la Corte d’Appello di Roma ad affermare che “malgrado […] ha valore avversativo e quindi la buona fede in senso oggettivo non è elemento costitutivo della fattispecie, sicché in definitiva non occorre constatare che la buona fede è stata violata per irrogare la sanzione dell’inefficacia” [31].

 

Questi riportati brevemente sono solo alcuni dei casi nei quali una traduzione letterale, pedissequa [32], incidendo sull’intero testo giuridico, rischia che ne vengano compromessi significato e comprensione.

 

4. L’esempio degli antichi

 

Vi è, allora, da chiedersi:

 

perché rivolgere lo sguardo proprio all’antichità, al suo patrimonio linguistico ed alle proposizioni messe a punto dagli autori latini? [33] “[…] per tratteggiare grazie alla loro chiarezza una mappa dei rapporti tra lingua e diritto e insieme per suggerire l’utilità di una perlustrazione sistematica del pensiero antico” [34], la qual cosa potrebbe finire con l’arricchire la discussione linguistica e giuridica moderna. Il giurista, invero, oltre ad essere un perfetto conoscitore di norme ed una persona capace di padroneggiare la tecnica per individuarle e applicarle, deve anche essere uno “storico del diritto”, e questo perché lo stesso diritto non è sempre uguale, ma di volta in volta si correla a specifiche realtà socio-economiche: ne consegue che se volesse intenderlo dal profondo, riconoscerlo e renderlo effettivo, dovrebbe avere la coscienza sia della sua storicità che del metodo utilizzato per la sua applicazione.

 

Ancora:

 

perché proprio il de verborum significatione [35] ed il legal drafting come parametri di riferimento? L’accostamento, invero, è un po’ azzardato: si tratta, infatti, di due sistemi lontani l’uno dall’altro (in particolare, il legal drafting rappresenta una sorta di guida pratica alla formulazione di testi giuridici più comprensibili per il largo pubblico e più precisi per gli interpreti, una guida cioè alla scrittura istituzionale, che sta prendendo sempre più piede nei corsi di formazione per pubblici funzionari, volta ad insegnar loro a produrre testi burocratici più comprensibili ed efficaci); eppure questo accostamento vuole fungere da esperimento per tentare di dimostrare come l’uso attento dei vocaboli, da un lato, ed il loro corretto impiego in ambito giuridico, dall’altro, possano costituire, ieri come oggi, una valida metodologia d’insegnamento.

 

Non va dimenticato “che noi siamo in gran parte tributari ai Romani della nostra terminologia giuridica”.

 

Infine:

 

perché prendere in considerazione proprio la giurisprudenza romana [36]? Perché con il suo metodo casistico, un metodo non rigido, ma imperniato sulla ricerca della soluzione più giusta, quantunque perfettibile, del caso concreto, è divenuta un fattore essenziale della storia del pensiero giuridico, antico e moderno, ponendo le basi del primo, grande, edificio scientifico del diritto e costruendo, altresì, le categorie fondamentali di ogni scienza giuridica.

 

La presenza di giuristi, l’utilizzazione da parte loro di un metodo casistico, la costruzione di una scientia iuris, cioè di un’autonoma forma del sapere, organizzata in modo razionale, secondo una propria logica, secondo regole e definizioni flessibili, secondo un linguaggio rigoroso rappresenta, infatti, l’elemento che ha reso l’esperienza giuridica romana un fattore propulsivo fondamentale nella costruzione della giuridicità dell’età medioevale e moderna.

 

5. Il De verborum significatione come modello di riferimento

 

Si consideri, dunque, il titolo 50.16 de verborum significatione dei Digesta, il quale contiene ben 246 frammenti di cui 56 sono composti da due o più §§ per un totale di 345 testi; esso fa espressamente riferimento alla significatio, termine corrispondente al nostro “significato” [37], alla Bedeutung dei tedeschi: si tratta, più precisamente, di dati linguistici, che talvolta, quando lo stesso vocabolo è adoperato in più accezioni (con più significati, appunto) è bene precisare.

 

L’eterogeneità di significatio deriva dal fatto che per i Romani poteva includere sia il significato puro e semplice della parola; sia l’interpretazione estensiva o restrittiva [38], sia infine le definizioni [39], cioè il frutto di operazioni mentali che comunque hanno per oggetto il significato.

 

Si cercherà di fare qualche esempio per ciascuno dei tria genera:

 

a) in D. 50.16.24 (Gai 6 ad ed. prov.) si legge una corretta definizione di secondo la quale: «nihil aliud est “hereditas” quam successio in universum ius quod defunctus habuit»;

 

b) in D. 50.16.49 (Ulp. 59 ad ed.) si dice che: “bona ex eo dicuntur quod beant, hoc est beatos faciunt, beare est prodesse”;

 

c) ancora, in D. 50.16.238.2 (Gai 6 leg. XII tab.) “pignus appellatum a pugno, quia res quae pignori dantur, manu traduntur”.

 

Si tratta, come facilmente intuibile di ipotesi nelle quali si ha una definizione chiara del significato del termine; ipotesi nelle quali, invece, lo stesso termine viene adoperato con significati differenti, si possono rinvenire, per esempio, in tema di:

 

a) potestas, verbum che può essere utilizzato ora per indicare l’imperium dei magistrati; ora la patria potestas; ora il dominio sugli schiavi; ora la disponibilità di fatto sullo schiavo stesso (cum agimus de noxae deditione cum eo qui servum non defendit); ora, infine, la potestas rei vindicandae (nel contesto della lex Atinia) → D. 50.16.215 (Paul. 1 sing. ad legem Fufiam Caniniam) [40];

 

b) oppure di familia, puntualmente trattata nelle sue diverse accezioni in D. 50.16.195.1-5 (Ulp. 46 ad ed.) [41], laddove ora deve intendersi come patrimonio dell’ereditando (nella legislazione decemvirale); ora è la familia proprio iure o communi iure, ora è la familia servorum con riferimento agli schiavi dello stesso padrone, ora, ancora la familia Iulia (intesa in senso socio-politico). A quest’ultimo proposito, sia consentito un parallelismo con l’attuale sistema giurisprudenziale italiano (chiaramente con tutte le precauzioni del caso), parallelismo volto ad evidenziare la stessa difficoltà che ancora oggi incontrano i giudici nel tentativo di qualificare giuridicamente la famiglia di fatto, problema che, come facilmente intuibile, deriva dall’intervento codificatorio a seguito del quale alcuni concetti sono stati positivizzati: le sentenze sul punto sono numerosissime e vanno dal diritto penale [42] a quello civile, dove – a parte i recenti interventi legislativi in materia di filiazione naturale, negoziazione assistita e divorzio breve e la disputa politica sulle unioni civili e la stepchild adoption – il Supremo Collegio è intervenuto sul problema della attribuzione o meno dell’assegno divorzile, dopo che uno dei due ex coniugi (il beneficiario) si era costruito una nuova famiglia di fatto [43].

 

La varietà dei testi che possono rinvenirsi nel titolo 50.16 dei Digesta è molto ampia e spazia, come si è già detto e cercato di dimostrare, dalle “semplici”, se si vuole, definizioni a veri e propri suggerimenti interpretativi. Si pensi a:

 

a) D. 50.16.123 (Pomp. 26 ad Q. Mucium) [44] nel quale si dice che talvolta può accadere che il verbo erit anziché al futuro debba essere riferito al passato (ragionamento analogo per la voce verbale est: Troia capta est = Troia è o è stata);

 

b) ancora al frammento 237 (Gai 5 ad legem duodecim tabularum), nel quale si precisa che due negazioni affermano: “duobus negativis verbis quasi permittit lex quam prohibuit: idque etiam Servius animadvertit”;

 

c) o, in ultimo, a D. 50.16.124 (Proc. 2 ad ep.) [45], nel quale viene proposta una ricca casistica che ha ad oggetto il metodo interpretativo di due verba collegati da una particella, aut, che può congiungerli o separarli.

 

Va detto che questi riportati sono solo alcuni dei numerosissimi frammenti contenuti nel De verborum significatione: ne potrebbero essere menzionati molti altri, indicativi del metodo casistico-interpretativo degli antichi.

 

6. Conclusioni

 

A fronte di un intero libro dei Digesta dedicato alle significationes, oggi, invece, ci troviamo in una situazione nella quale il diritto è diventato d’élite, per pochi, dimenticando, invece, che la proposizione giuridica per essere veramente tale deve essere chiara e soprattutto concisa ed arrivare dritta al suo destinatario principale, il cittadino.

 

Probabilmente, se tutte le indicazioni contenute nel titolo 50.16 venissero fornite agli studenti del primo anno di giurisprudenza, i giuristi del domani "per aumentarne le competenze linguistiche, aiutarli ad acquistare la capacità di leggere con acume critico e interpretativo e di scrivere con chiarezza, forza ed eleganza" [46], si potrebbero evitare aberrazioni linguistiche – così come sono state definite – di questo tipo:

 

 

 

 

[1] T. De Mauro, “Il linguaggio giuridico: profili storici, sociologici e scientifici”, in Linguaggio e giustizia. Nuove ricerche, CEPIG – Centro pontino di iniziative giuridico-sociali, Ancona, 1986, p. 11.

[2] Cicerone, per esempio, attribuiva a ius e sermo la precipua funzione di vincoli sociali: in Verrem infatti egli sostiene che i cittadini romani sono stati uniti dalla condivisione della lingua, del diritto e di molte cose (Cic., in Verr. 2.5.167. … cives … Romanos, qui et sermonis et iuris et multarum rerum societate iuncti sunt).

[3] Sul punto, potrebbe rivelarsi interessante quanto riporta ORAZIO nel De arte poetica (v. 70-2. Multa renascentur quae iam cecidere, cadentque / quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus / quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi), dove il poeta teorizza sul cambiamento di ius e norma loquendi lungo l’asse diacronico.

[4] Si vedano, in particolare: M. AINIS, La legge oscura. Come e perché non funziona, Roma-Bari, 2010 e P. DI LUCIA, “Tre opposizioni per lo studio dei rapporti tra diritto e linguaggio”, in U. SCARPELLI-P. DI LUCIA (curr.), Il linguaggio del diritto, Milano, 1994, pp. 9 ss. a parere del quale all’interno delle concezioni del diritto come linguaggio possono scorgersi le elaborazioni ontologiche (che rispondono alla domanda: “che cosa è una norma?”) e quelle semiotiche (che, invece, rispondono alla domanda: “quando un’entità linguistica è normativa?”).

[5] S. Cassese, “Introduzione allo studio della normazione”, in Riv. trim. dir. pubbl., 2, 1992, pp. 307 ss.; T. De Mauro, Il linguaggio giuridico: profili storici, sociologici e scientifici, cit.; Id., “Il linguaggio come tecnica dell’esprimersi”, in A. Mariani Marini (cur.), Il linguaggio, la condotta, il metodo (Seminari dell’Avvocatura: Roma, febbraio-maggio, 2000), pp. 3 ss.; M.V. Dell’Anna, “Il lessico giuridico. Proposta di descrizione”, in Lingua nostra, LXIX, 2008, pp. 98 ss.; P. Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, Milano, 2008; G. Gualdo, “Il linguaggio del diritto”, in R. Gualdo-S. Telve (curr.), Linguaggi specialistici dell’italiano, Roma, 2011, pp. 411 ss.; Id., “Come cambia l’italiano giuridico nella tempesta delle lingue”, in F. Bambi-B. Pozzo (curr.), L’italiano giuridico che cambia. Atti del convegno (1 ottobre, 2010), Firenze, Accademia della Crusca, 2012, pp. 195 ss.; B. Mortara Garavelli, Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi giuridici italiani, Torino, 2001; S. Ondelli, La lingua del diritto: proposta di classificazione di una varietà dell’italiano, Roma, 2007; F. Sabatini, “Dalla lingua comune al linguaggio del legislatore e dell’avvocato”, in A. Mariani Marini-M. Paganelli (curr.), L’avvocato e il processo: le tecniche della difesa, Milano, 2003, pp. 5 ss.; J. Visconti, Lingua e diritto. Livelli di analisi, Milano, 2010; L. Schena, La lingua del diritto, Milano, 1997; L. Serianni, “Il linguaggio giuridico”, in Id., Italiani Scritti, Bologna, 2012.

[6] In questi termini si esprime M. Cortelazzo, “Lingua e diritto in Italia. Il punto di vista dei linguisti”, in L. Schena (cur.), La lingua del diritto, cit., p. 36.

[7] D. Mantovani, “Lingua e diritto. Prospettive di ricerca fra sociolinguistica e pragmatica”, in G. Garrone e F. Santulli (curr.), Il linguaggio giuridico. Prospettive interdisciplinari, Milano, 2008, p. 17.

[8] Si pensi ai tecnici del diritto.

[9] G. Alpa, “Il linguaggio dell’avvocato nella evoluzione dei metodi interpretativi, delle prassi e della tecnologia”, in A. Mariani Marini-M. Paganelli (curr.), L’avvocato e il processo, cit., pp. 14 ss.; L. Breggia, “La semplificazione del linguaggio giuridico negli atti processuali”, in F. Bambi-A. Mariani Marini (curr.), Lingua e diritto, cit., pp. 15 ss.; M.V. Dell’Anna, In nome del popolo italiano. Lingua e testualità della sentenza in Italia, Roma, 2013; Ead., “Profili discorsivi e argomentazione nel linguaggio del giudice”, in F. Bambi-A. Mariani Marini (curr.), Lingua e diritto, cit., pp. 149 ss.; P. Fiorelli, “Paradossi d’un linguaggio legale in crisi”, in F. Bambi-B. Pozzo, L’italiano giuridico che cambia, cit., pp. 225 ss.; G. Chiovenda, “Memorie difensive”, in F. Cipriani (cur.), Bologna, 2005; F. Macario, “Metodologia e tecniche argomentative nella elaborazione di scritti difensivi”, in A. Mariani Marini-F. Procchi, L’argomentazione, cit., pp. 51 ss.; F. Sabatini, “Dalla lingua comune al linguaggio del legislatore e dell’avvocato”, in A. Mariani Marini-M. Paganelli (curr.), L’avvocato e il processo, cit., pp. 5 ss.; L. Tria, “Il linguaggio e lo stile delle corti supreme”, in F. Bambi-A. Mariani Marini, Lingua e diritto, cit., pp. 177 ss.

[10] Vedi infra.

[11] Il cd. infinito + accusativo.

[12] Si pensi alla medesima frase pronunciata da una ragazza che, recandosi in una sartoria, si rivolge alla lavorante chiedendo: “applicarsi una toppa ai suoi jeans” (la frase è stata pronunciata da F. Bambi durante una lezione tenuta in occasione del Corso di perfezionamento per l’anno accademico 2014/2015, Professioni legali e scrittura del diritto. La lingua giuridica com’è e come dovrebbe essere).

[13] Per maggiore chiarezza si riporta per intero la norma richiamata: “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”.

[14] L’esempio è tratto da Cassazione Civile n. 4662/2005.

[15] Relativamente a questa categoria si potrebbero delineare tre diversi modi di atteggiarsi del medesimo linguaggio che, a seconda delle situazioni, può assumere: carattere “persuasivo” (in sede giudiziale); normativo (in sede contrattuale) e comunicativo (in sede di consulenza legale).

[16] Si tratta della sentenza 27 febbraio 2014, n. 346.

[17] Questo monito è stato rivolto ai liberi professionisti anche dal primo presidente della Corte di Cassazione, Santacroce, e dal presidente del Consiglio Nazionale Forense, Mascherin, i quali hanno firmato, il 17 dicembre scorso, due protocolli (uno per la materia civile e tributaria; l’altro per quella penale), con il preciso obiettivo – si legge su un articolo apparso su Il Sole 24Ore (a firma di G. Negri, “Accordo Cnf-Cassazione sui modelli di ricorso”, in Il Sole 24Ore del 19 dicembre 2015, n. 349, p. 21) – di “favorire il lavoro di amministrazione della giustizia”. Nella prassi, accade spesso, infatti, che i ricorsi depositati dai legali presentano – per stessa ammissione dei giudici – un contenuto incomprensibile: onde evitare ciò, dunque, nei protocolli è stato indicato uno schema di redazione, attraverso il quale ne vengono definiti i limiti di contenuto ed agevolata la comprensione.

[18] Teoria dell’agire comunicativo, 1981.

[19] E qui non si intende soltanto il potere in senso istituzionale (che è quello del Legislatore quando emana testi normativi o dei giudici che emettono sentenze), ma anche quello in senso lato, in senso comunicativo: in qualsiasi situazione comunicativa, il mittente può scegliere di comunicare in modo “autoritativo”, lasciando poco spazio alla facoltà di critica da parte del ricevente. In questi casi, l’uso di forme linguistiche speciali serve fondamentalmente a sottolineare l’appartenenza ad una determinata classe.

[20] Si pensi a termini quali usufrutto, comodato, enfiteusi, litisconsorzio, sinallagma: in tutti questi casi è l’innegabile complessità della materia giuridica a richiederne l’opportuna specializzazione linguistica.

[21] Dove con il termine “provvedimenti” si vuole fare riferimento ai diversi testi giuridici, siano essi nella forma delle sentenze, delle leggi, delle norme, degli atti amministrativi etc.

[22] Il riferimento è sia a quei termini intraducibili quali trust, real property and personal property, leasing, factoring, leverage by out che a quelli che in qualche modo debbono comunque essere recepiti nel nostro ordinamento in quanto ormai entrati a far parte delle dinamiche giuridiche.

[23] Sono ben 24 le lingue europee nelle quali vanno tradotti i testi giuridici.

[24] Vi appartengono civiltà giuridiche differenti e soprattutto distanti tra loro come quelle di Common e Civil Law.

[25] Problema che si avverte in particolar modo quando si tratta di comunicare attraverso lingue differenti, «con buona pace per coloro i quali presumono (iuris tantum?) che oggi si sia tutti felicemente poliglotti. Narrava a tal proposito un collega, direttore legale presso una nota società americana, che essendo tale società produttrice di bevande, gli capitò di imbattersi in alcune improvvide traduzioni di direttive comunitarie del tipo “il condizionamento delle derrate alimentari”, anziché – come sarebbe stato corretto e logico – “il confezionamento” delle derrate stesse (che in francese si traduce conditionnement), con ovvie imbarazzanti conseguenze»: sono parole di E. Cappa, Prefazione al libro Il linguaggio giuridico. Prospettive interdisciplinari, G. Garzone e F. Santulli (curr.), Milano, 2008, p. xvii.

[26] Così come statuisce espressamente l’art. 1321 c.c. a norma del quale: “il contratto è l’accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”.

[27] Si tratta, chiaramente, di una corrispondenza per assonanza. Lo stesso vale se pensassimo all’assonanza tra i delicta romanistici e quelli (diversi) previsti dal nostro sistema penale.

[28] Per completezza, si riporta anche l’impiego del Vertrag tedesco, utilizzato per definire anche le promesse gratuite.

[29] Così come sostituito dalla L. n. 262/2005, in tema di “disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari”.

[30] Correttamente le versioni inglese (contrary to the requirement of good faith); tedesca (entegegen dem Gebot vom Treu und Glauben) e francese (en dépit de l’exigence de bonne foi) si richiamano per l’applicabilità della normativa di protezione alla violazione della buona fede.

[31] Corte App. Roma, sentenza 24 settembre 2002, in Foro it., 2003, I, 332.

[32] In dottrina, c’è stato chi ha parlato di “traduzione traditrice”: così F. Bambi, Introduzione a Lingua e diritto. Scritto e parlato nelle professioni legali, cit., p. 13.

[33] Sul problema della “compatibilità” del diritto romano con quello moderno, si vedano, tra gli altri: A. Bellodi Ansaloni, Scienza giuridica e retorica forense. Appunti da un corso di Metodologia giuridica romana, Dogana (Repubblica di San Marino), 2012; G. La Pira, “La genesi del sistema nella giurisprudenza. 4. Il concetto di scienza e gli strumenti della costruzione scientifica”, in BDR, XLIV, 1936-1937, pp. 131-159; L. Vacca, Casistica e sistema nel diritto giurisprudenziale. Alcune riflessioni con riferimento al “metodo” dei giuristi romani, in Europa e diritto privato, 2 (2003), pp. 325-368; Ead., Interpretazione e scientia iuris: problemi storici e attuali, relazione svolta al convegno annuale della facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca, “La fabbrica delle interpretazioni”, 19-20 novembre 2009.

[34] D. Mantovani, Lingua e diritto. Prospettive di ricerca fra sociolinguistica e pragmatica, cit., p. 22.

[35] M. Marrone M., “Osservazioni su D. 50.16”, in Il linguaggio dei giuristi romani. Convegno Internazionale di Studi, Lecce 5-6 dic. 1994, § 2 (= Scritti giuridici, I, pp. 563-583); Id., “Nuove osservazioni su D. 50.16”, in Scritti giuridici, II, pp. 37-52; Id., “Le significationes di D. 50.16 (‘de verborum significatione’)”, in SDHI, LX, 1994, pp. 583 ss.

[36] P. Cerami, s.v. “Giurisprudenza – Scienza giuridica nel diritto romano”, in Dig. Disc. Priv. (Sez. Civ.), IX, Torino, pp. 180-193; L. Raggi, Il metodo della giurisprudenza romana, Torino, 2007.

[37] “Significato” è “uno […] dei più controversi e ambigui in tutta la teoria del linguaggio”: R. Cardona, Dizionario di linguistica, Roma, 1988, p. 279.

[38] Che, alla fine, altro non è che il significato stesso del lemma ampliato o ristretto. Si ricorda all’uopo che anche per il nostro ordinamento, l’indagine dell’interprete non deve limitarsi all’esame letterale del testo, ma deve fondarsi sul “[...] senso fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore” (art. 12 delle Preleggi). G. Archi, “Intepretatio iuris – interpretatio legis – interpretatio legum”, in ZSS, LXXXVII, 1970, pp. 1-49.

[39] Sul problema delle definizioni in diritto romano si veda in particolare B. Albanese, “Definitio periculosa. Un singolare caso di duplex interpretatio”, in Studi in onore di G. Scaduto, 3, Padova, 1970, pp. 229-376.

[40] “Potestatis” verbo plura significantur: in persona magistratuum imperium: in persona liberorum patria potestas: in persona servi dominium. At cum agimus de noxae deditione cum eo qui servum non defendit, praesentis corporis copiam facultatemque significamus. In lege Atinia in potestatem domini rem furtivam venisse videri, et si eius vindicandae potestatem habuerit, Sabinus et Cassius aiunt.

[41] 1. “Familiae” appellatio qualiter accipiatur, videamus. Et quidem varie accepta est: nam et in res et in personas deducitur. In res, ut puta in lege duodecim tabularum his verbis “adgnatus proximus familiam habeto”. Ad personas autem refertur familiae significatio ita, cum de patrono et liberto loquitur lex: “ex ea familia”, inquit, “in eam familiam”: et hic de singularibus personis legem loqui constat.

2. Familiae appellatio refertur et ad corporis cuiusdam significationem, quod aut iure proprio ipsorum aut communi universae cognationis continetur. Iure proprio familiam dicimus plures personas, quae sunt sub unius potestate aut natura aut iure subiectae, ut puta patrem familias, matrem familias, filium familias, filiam familias quique deinceps vicem eorum sequuntur, ut puta nepotes et neptes et deinceps. Pater autem familias appellatur, qui in domo dominium habet, recteque hoc nomine appellatur, quamvis filium non habeat: non enim solam personam eius, sed et ius demonstramus: denique et pupillum patrem familias appellamus. Et cum pater familias moritur, quotquot capita ei subiecta fuerint, singulas familias incipiunt habere: singuli enim patrum familiarum nomen subeunt. Idemque eveniet et in eo qui emancipatus est: nam et hic sui iuris effectus propriam familiam habet. Communi iure familiam dicimus omnium adgnatorum: nam etsi patre familias mortuo singuli singulas familias habent, tamen omnes, qui sub unius potestate fuerunt, recte eiusdem familiae appellabuntur, qui ex eadem domo et gente proditi sunt.

3. Servitutium quoque solemus appellare familias, ut in edicto praetoris ostendimus sub titulo de furtis, ubi praetor loquitur de familia publicanorum. Sed ibi non omnes servi, sed corpus quoddam servorum demonstratur huius rei causa paratum, hoc est vectigalis causa. Alia autem parte edicti omnes servi continentur: ut de hominibus coactis et vi bonorum raptorum, item redhibitoria, si deterior res reddatur emptoris opera aut familiae eius, et interdicto unde vi familiae appellatio omnes servos comprehendit. Sed et filii continentur.

4. Item appellatur familia plurium personarum, quae ab eiusdem ultimi genitoris sanguine proficiscuntur (sicuti dicimus familiam Iuliam), quasi a fonte quodam memoriae.

[42] Si pensi, per fare un solo esempio, alla sentenza n. 31121 del 2014, in tema di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.), nella quale la Corte di Cassazione ha affermato che “la norma di cui all’art. 572 c.p. non riguarda solo i nuclei familiari costruiti sul matrimonio, ma qualunque relazione che, per la consuetudine e la qualità dei rapporti creati all’interno di un gruppo di persone, implichi l’insorgenza di vincoli affettivi ed aspettative di assistenza assimilabili a quelli tradizionalmente propri del nucleo familiare”.

[43] In questo caso, i giudici hanno stabilito che «l’espressione “famiglia di fatto” non consiste soltanto nel convivere come coniugi, ma indica prima di tutto una “famiglia”, portatrice di valori di stretta solidarietà, di arricchimento e sviluppo della personalità di ogni componente, e di educazione e istruzione dei figli».

[44] Verbum “erit” interdum etiam praeteritum nec solum futurum tempus demonstrat. Quod est nobis necessarium scire et cum codicilli ita confirmati testamento fuerint: “quod in codicillis scriptum erit”, utrumne futuri temporis demonstratio fiat an etiam praeteriti, si ante scriptos codicillos quis relinquat. Quod quidem ex voluntate scribentis interpretandum est. Quemadmodum autem hoc verbum “est” non solum praesens, sed et praeteritum tempus significat, ita et hoc verbum “erit” non solum futurum, sed interdum etiam praeteritum tempus demonstrat. Nam cum dicimus “Lucius Titius solutus est ab obligatione”, et praeteritum et praesens significamus: sicut hoc “Lucius Titius alligatus est”. Et idem fit, cum ita loquimur “Troia capta est”: non enim ad praesentis facti demonstrationem refertur is sermo, sed ad praeteritum.

[45] Haec verba “ille aut ille” non solum disiunctivae, sed etiam subdisiunctivae orationis sunt. Disiunctivum est, veluti cum dicimus “aut dies aut nox est”, quorum posito altero necesse est tolli alterum, item sublato altero poni alterum. Ita simili figuratione verbum potest esse subdisiunctivum. Subdisiunctivi autem genera sunt duo: unum, cum ex propositis finibus ita non potest uterque esse, ut possit neuter esse, veluti cum dicimus “aut sedet aut ambulat”: nam ut nemo potest utrumque simul facere, ita aliquis potest neutrum, veluti is qui accumbit. Alterius generis est, cum ex propositis finibus ita non potest neuter esse, ut possit utrumque esse, veluti cum dicimus « omne animal aut facit aut patitur: nullum est enim quod nec faciat nec patiatur: at potest simul et facere et pati ». Il frammento – del quale si è molto discusso e si discute tuttora (si vedano fra gli altri: A. Mantello, “Della disgiunzione nel pensiero di Proculo”, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, V, Napoli, 2001, pp. 173 ss. [= Variae, I, Lecce 2012, pp. 517 ss.]; V. Vendittelli Casoli, “L’operazione della disgiunzione nella logica stoica e nel diritto romano”, in Studi E. Betti, IV, Milano, 1962, pp. 419 ss.; J. Miquel, “Stoische Logik und römische Jurisprudenz”, in ZSS, LXXXVII, 1970, pp. 85 ss., spec. pp. 90 ss.; Ch. Krampe, Proculi Epistulae. Eine frühklassische Juristenschrift, Karlsruhe, 1970, pp. 82 ss.; S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, II, Milano, 1993, pp. 470 ss. spec. pp. 475 s.) – delinea diverse ipotesi interpretative della particella disgiuntiva aut, nel senso che essa può essere intesa sia come oratio disiuntiva (e, dunque, come alternativa netta tra due elementi: l’esempio riportato nel testo è indicativo in tal senso, dal momento che il giorno esclude sempre la notte e viceversa, alterum non datur → ‘aut dies aut nox est’), sia come oratio subdisiuntiva, quando, invece, l’alternatività tra essi non è poi così rigorosa. In quest’ultimo caso, è possibile altresì distinguere ipotesi nelle quali può esservi inammissibilità di entrambi gli elementi (si pensi, per esempio, al caso dell’‘aut sedet aut ambulat’, nel quale tali azioni potrebbero risultare entrambe false, qualora venissero rapportate ad un determinato segmento temporale, probabilmente perché si sta attendendo a qualche altra attività), ed ipotesi nelle quali può esservi, invece, la contestuale ammissibilità di dette azioni (come accade per l’‘aut facit aut patitur’, in cui non necessariamente una delle due deve per forza essere vera e l’altra falsa, potendo tranquillamente anche coesistere).

[46] D. Mantovani, Lingua e diritto. Prospettive di ricerca fra sociolinguistica e pragmatica, cit., p. 22.

 

 

 

*A. CARAVAGLIOS, "De verborum significatione e legal drafting tra lingua e diritto", in Interpretatio Prudentium, Ano I, N.º 1, Lisboa, Teoria e História do Direito, Centro de Invbestigação da ULisboa (THD-ULisboa), 2016, pp.

 

Sommario | Scopo del presente contributo è quello di dimostrare come l’uso attento dei vocaboli ed il loro corretto impiego in ambito giuridico possano costituire, ieri come oggi, una valida metodologia d’insegnamento.

Parole-chiave | De verborum significatione, legal drafting, ius, sermo

 

Abstract | The aim of this investigation is to compare how the careful use of words and their employ in the legal field may be considered, today as in the past, a valid teaching method.

Keywords | De verborum significatione, legal drafting, ius, sermo

 

 

 

 

 

Interpretatio Prudentium, Ano I, Número 1, 2016

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